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Approfondimenti: Viaggio nella memoria del matrimonio, in una comunità pronta a scommettere sul proprio futuro

I preziosi approfondimenti di Lucia Santelli inseguendo il filo dei ricordi, ci portano oggi nell'affascinante mondo del matrimonio. Vissuto dalla comunità come uno dei momenti più alti e impegnativi, nel quale si investiva tutte le proprie risorse, nella consapevolezza che questo appuntamento rappresentava la porta del futuro.

Cantate e danzate insieme e siate giocondi,
ma ognuno di voi sia solo.
Come sole sono le corde del liuto,
sebbene vibrino di una musica uguale.
(Gibran Kahlil, Il Profeta)

Desidero dedicare questo approfondimento al matrimonio: descrivendo usi e costumi legati alla tradizione popolare orsomarsese. Il matrimonio, quando va bene, è un evento eccezionale, unico e irripetibile nella vita di ogni persona. Nel mio immaginario, il matrimonio orsomarsese - o meglio la sua macchina organizzativa - è composto dal fidanzamento, dal corredo e dalla dote, da personaggi come i compari d'anello e gli "ambasciatori" (i masciaturi) fino a giungere al rito religioso e ai successivi grandi festeggiamenti.
Penso alla macchina organizzativa che si metteva in moto, al coinvolgimento di tante persone che come vedremo più avanti, gratuitamente si offrivano per far sì che questa giornata così importante si svolgesse nel migliore dei modi.
Come spesso accadeva per i grandi eventi la rete di persone di cui ho parlato altre volte, era sempre pronta e attiva, in questo caso non solo le donne ma anche la partecipazione degli uomini aveva una grande rilevanza in questa particolare ritualità.
Anche l'aspetto economico aveva la sua importanza, un avvenimento di così grande portata voleva dire grande mole di lavoro per gli artigiani; dal falegname al calzolaio, alle sartine che confezionavano abiti femminili, barbiere, parrucchiera, pasticciere, insomma un brulicare laborioso intorno ai futuri sposi.
Il fidanzamento solitamente era il primo ingranaggio della macchina organizzativa che partiva per la formazione di una nuova famiglia. C'erano coppie che si fidanzavano di nascosto "a mmucciòna" (anche se tutti sapevano) e solo quando erano sicuri del loro sentimento d'amore rendevano pubblica l'unione e si fidanzavano ufficialmente. Si usava anche, che quando un giovanotto si innamorava, non si dichiarava personalmente, ma inviava una persona di fiducia presso i genitori a chiedere la mano della ragazza che voleva sposare. Queste persone erano i messaggeri (ormai scomparsi), "masciaturi". Nel mio immaginario di ragazza li vedevo come nella mitologia greca, che con le ali ai piedi volavano da una parte all'altra del paese per portare belle notizie e ambasciate. Mi ricordo a quei tempi che al momento del fidanzamento si fissava anche la data del matrimonio.
Il periodo del fidanzamento variava a seconda della condizione sociale ed economica delle famiglie di appartenenza degli sposi, a volte anche dall'età della ragazza magari ancora minorenne, oppure per questioni più concrete come, per esempio, il fatto che la casa degli sposi non fosse pronta.
Per ufficializzare e rendere pubblico il fidanzamento i promessi sposi si scambiavano l'anello che di solito era una fascetta d'oro bianco molto semplice: era anche il momento dove entrambi i genitori degli sposi oltre a conoscersi, si accordavano per le spese da sostenere, per la casa, per il corredo e per il numero degli invitati e altri dettagli. Per questa occasione solitamente si cenava tutti insieme e si concludeva la serata facendo festa con i parenti e amici. Questa cerimonia si chiamava "a trasùta", e da quel preciso momento i due innamorati potevano uscire insieme, senza mai allontanarsi troppo dalla vista dei genitori altrimenti si richiedeva la presenza di qualche fratello/sorella come custode della purezza dell'incontro.
A volte capitava come capita ancora adesso che il fidanzamento veniva rotto e allora erano vere tragedie! Si restituivano tutti i regali ricevuti e, non di rado, nascevano delle vere e proprie inimicizie.

Ricordo ancora durante i lunghi e caldi pomeriggi estivi le ragazze sedute sui gradini di casa e prossime al matrimonio che ricamavano personalmente il proprio corredo mentre i bambini giocavano a palla o a nascondino. E mentre prendevano il fresco, "frischijàvunu", ricamavano, conversavano silenziosamente della persona amata, sognando il futuro colmo di progetti condivisi.
Il corredo era l'elemento essenziale e principale per una ragazza, rituale che iniziava al momento della sua nascita. Infatti già da neonata, prima le nonne, poi i parenti e gli amici le regalavano biancheria per la casa da conservare per il matrimonio. Da qui il detto "figghia ‘nda fascia rota ‘nda cascia", che significa: figlia ancora in fasce e corredo già nel baule. Il corredo doveva essere ricco e bello, le lenzuola di cotone o di lino e finemente ricamate, e non meno di dodici paia, così per gli asciugamani e le tovaglie da tavola. Man mano che la ragazza cresceva, la mamma continuava a mettere da parte fino al completamento dei pezzi mancanti. Solo quando mancava poco al matrimonio si facevano confezionare i materassi con i cuscini di lana e la trapunta per l'inverno. Li ricordo molto bene quei momenti in quanto la mia nonna Teresina era una delle sarte incaricate al confezionamento degli stessi. Infatti, per preparare la trapunta di lana, la nonna faceva una specie di trasloco, svuotando completamente la camera da letto, lavava accuratamente il pavimento, disponeva a terra la stoffa e con pazienza certosina disponeva la lana sulla fodera, aggiungendo ogni tanto una pallina di naftalina; quindi imbastiva con precisione e quando tutto era perfettamente simmetrico, piegava la trapunta per cucirla tutta a mano sul tavolo, andava avanti così per almeno tre giorni, lavorando dalla mattina alla sera, disegnando con i gessetti da sarta forme geometriche che inventava al momento o a seconda della fantasia della stoffa. Tante volte l'ho osservata e aiutata, lei insisteva perché io imparassi ad apprendere la sua arte, che certamente ho imparato senza farla diventare una professione. Lo stesso avveniva per i materassi di lana, dopo averli confezionati a macchina, disegnava i fori e li cuciva a mano uno per uno e li imbottiva. Nei giorni in cui la nonna confezionava trapunta e materassi per gli sposi, stava attenta a non far avvicinare nessuno, e guai a toccare se prima non ti eri lavata le mani!
Quando mancava poco tempo al matrimonio, gli sposi, accompagnati dai genitori, andavano al municipio per preparare i documenti necessari. Poi in chiesa, dal prete, per fissare la data delle nozze. Questo era "u primu richistu". Come erano affascinanti per me queste parole, racchiudevano un velo di mistero e non vedevo l'ora di scoprirne il significato.
Ad un mese circa del grande giorno e, ancora non si usavano le partecipazioni scritte, le mamme dei due sposi invitavano personalmente gli amici e parenti andando di casa in casa, e quando tutto era pronto, il giovedì della settimana che precedeva il matrimonio era dedicato alla messa in ordine della casa e alla preparazione del letto degli sposi. Per me un vero rito a cui ho assistito tante volte. Il letto veniva confezionato dalle due consuocere e da ragazze ancora vergini, era vietata la presenza della sposa. La biancheria usata era la più bella in assoluto e ricamata apposta per il primo letto, in diversi luoghi della casa venivano fatte preghiere di buon auspicio di una vita lunga, serena e prospera, e non potevano mancare anche gli scongiuri contro il malocchio.
L'abito della sposa, rigorosamente bianco, era offerto dalla famiglia dello sposo e veniva ritirato in negozio da una ragazzina amica della sposa, a me è capitato qualche volta di fare questo servizio e devo dire che mi sentivo molto onorata e importante perché, una volta a casa, la sposa mi mostrava il vestito con grande gioia e orgoglio. Io mi sentivo partecipe e complice di questa gioia. Ritenevo questo atto un grande privilegio che custodivo segretamente fino al giorno del matrimonio dove, a quel punto, tutti potevano ammirare il vestito della sposa.
Il bouquet era solitamente di fiori finti, annesso e abbinato al vestito (non di fiori freschi che ancora non si usavano). Mentre la camicia dello sposo veniva offerta dalla famiglia della sposa.
La sera prima del matrimonio "u zitu", il futuro sposo, accompagnato dagli amici più cari e con l'organetto andava sotto la finestra della sua "zita", l'amata, a farle la serenata. Ho ancora impressa nella memoria e nitida nelle orecchie la musica e le canzoni che a squarciagola cantavano ... Ho sempre pensato che se mi fossi sposata a Orsomarso l'avrei voluta anche io. Se ci penso adesso mi vien da sorridere, povero Peppino (mio marito) riservato e poco intonato chissà come se la sarebbe cavata!
Il giorno del matrimonio tutto il paese era felicemente in fermento per i preparativi, e all'ora stabilita gli invitati (solo uomini) si recavano a casa dello sposo per prelevarlo e accompagnarlo all'abitazione della sposa. Nel frattempo a casa della sposa c'era una grande agitazione per la vestizione e l'acconciatura dei capelli che richiedeva molto tempo e precisione. Raggiunta la casa, ad accoglierli c'era una persona fidata, indicata dalla famiglia, incaricata a fare da cerimoniere poiché tutto doveva seguire un certo ordine prestabilito. Prima però di avviarsi verso la chiesa c'era un altro rituale da rispettare: la suocera adornava la sposa di catenina e orecchini d'oro oppure, a seconda della possibilità, di una parure completa di collana, orecchini, anello e bracciale. Dopo di che bisognava brindare e mangiare i dolci e i confetti che erano disposti su una bellissima tavola imbandita e, solo a questo punto, ci si avviava verso la chiesa.
Ad aprire il corteo erano le damigelle vestite di bianco che reggevano un piccolo cuscino bianco con le fedi nuziali, poi la sposa a braccetto del compare d'anello e dietro, lo sposo con la comara d'anello.
A questo punto è necessaria una sosta per ricordare e raccontare la figura dei compari d'anello (che sono gli attuali testimoni di nozze), personaggi ormai presenti solo nella mia memoria e delle persone della mia generazione. L'anello è il simbolo di amore eterno e rappresenta il legame indissolubile. Già nell'antico Egitto, in Grecia, fino ad arrivare all'antica Roma, assunse il significato di unione, e la tradizione imponeva di portarlo all'anulare sinistro in quanto avevano individuato una vena che porta dritto al cuore. Le fedi nuziali, secondo la tradizione orsomarsese venivano regalate generalmente dai compari d'anello che venivano scelti fra la cerchia di amici e parenti (una specie di madrina e padrino) dalle famiglie degli sposi, e di solito erano una coppia sposata e già consolidata, cosiddetta "perbene e agiata", fidata e molto vicina ai novelli sposi, generosi sia in consigli che di aiuto a volte anche economico. Con i compari d'anello si creava un legame molto forte quasi di parentela, e (come ho già detto nell'approfondimento sulla nascita, pubblicato dalla nostra associazione in dicembre 2010), toccava a loro battezzare anche il primo figlio nato alla coppia, diventando così "sangiuvanni". Ad alimentare questa affettuosa amicizia e rispetto erano anche i doni che si scambiavano vicendevolmente durante le feste più importanti come Pasqua, Natale e compleanni.
Tornando al corteo, dietro gli sposi, in perfetto ordine, c'erano i genitori ma con i coniugi scambiati e così, via via seguivano tutte le altre persone accoppiate e a braccetto a secondo del grado di parentela e di amicizia e per ultimo il gruppo di uomini senza la dama. Si andava così a piedi fino alla chiesa e tutti i bambini aspettavano questo momento festoso poiché i famigliari degli sposi lanciavano, oltre ai confetti e cannellini (confetti piccoli farciti alla cannella) anche le monete, tanto che a volte si scatenava una gara a chi raccoglieva più soldi, (ricordo ancora da bambina le azzuffate) mentre dalle finestre, al passaggio della sposa, una pioggia di riso e grano veniva lanciato in segno di buon auspicio, di abbondanza e di prosperità. Questo gesto semplice di gettare semi dalla finestra ricorda il momento della semina dei terreni: il coltivatore cosparge a pioggia il seme nel terreno che a sua volta lo accoglie facendolo germogliare. In questo caso la pioggia di grano e di riso simboleggia la fortuna e l'abbondanza che si riversa così sugli sposi. Da qui (forse) anche il detto sposa bagnata sposa fortunata.
È ancora molto vivo in me il ricordo della buon'anima "a bunarma", di Luigino Fazio "u razzijariu", quando al passaggio del corteo nuziale, con l'altoparlante diffondeva le note dell'Ave Maria di Schubert dal suo negozio.
Se ci penso mi commuovo ancora adesso come allora e se chiudo gli occhi rivivo la stessa emozione, e sento ancora le note che vibrano per tutti i vicoli del mio paese. Non posso fare a meno di pensare alla preziosità di queste persone scomparse che hanno fatto parte di quella rete di cui parlavo prima. Penso al calore e alla partecipazione generosa che offrivano alla comunità nel bene e nel male, ognuno secondo le proprie possibilità. Ricordo come se fosse adesso, le persone che non partecipavano al matrimonio riunite in capannelli per commentare: il vestito della sposa, il numero di coppie che componevano il corteo, le pettinature delle signore, i vestiti ... come mi piaceva intrufolarmi fra loro e sentire il loro chiacchiericcio. Anche questo contribuiva ad allietare la giornata.
In chiesa prima di entrare, la sposa tagliava il nastro bianco. Lì c'era l'accoglienza tenera di zia Clotilde prima, e zia Paolina dopo, per me "zì Cutilda e zì Pavulina", di come si prendevano cura della sposa standole accanto per darle le istruzioni per la cerimonia, per sistemarle il velo ed il vestito a volte ingombrante e vaporoso, oltre che a tenere a bada gli invitati, a volte invadenti e chiassosi!
La cerimonia religiosa poi aveva un fascino particolare, e ricordo ancora la commozione soprattutto delle mamme degli sposi che si asciugavano le lacrime, nel sentire i propri figli pronunciare il "si". Ricordo a volte anche l'ansia dei famigliari quando il celebrante prima di unire i due giovani nel sacro vincolo del matrimonio, leggeva la formula "se qualcuno ha da dire qualcosa, parli adesso o taccia per sempre".
Terminata la celebrazione del rito, il sacerdote chiedeva a caso (forse) a due persone di fare da testimoni agli sposi e di apporre la propria firma sul registro.
All'uscita della chiesa il corteo si ricomponeva e finalmente gli sposi potevano stare a braccetto per recarsi a casa per il rinfresco. Ad attenderli all'ingresso c'erano le due mamme con il vassoio "a guandìra" in mano e due bicchierini di liquore che gli sposi erano obbligati a bere prima di varcare la soglia, questo gesto mi ricorda tanto il varo di una nave, o l'inaugurazione di un'impresa, in questo caso si inaugurava la nascita di una nuova famiglia, e bere il liquore prima di entrare in casa era il modo migliore bene augurante per suggellare l'unione dei due sposi.
Una nuova famiglia prendeva vita e grande era la felicità sia degli sposi che dei famigliari. Il rinfresco di solito si svolgeva in casa della sposa, solo se era sufficientemente grande, altrimenti si prendeva in affitto una casa vuota e allestita apposta per quell'occasione, con le sedie tutte attorno alle stanze e con gli amici che fungevano da camerieri, distribuendo vassoi colmi di biscotti dolci e salati, confetti, liquori fatti in casa, nonché il dolce tipico per eccellenza, i sospiri, "i rurci ri ziti", forniti dalla pasticceria Aronne di Marcellina.
A questo proposito apro una parentesi. Spinta dalla curiosità, mi sono presa la libertà di fare due chiacchiere con il signor Renato Aronne, ora in pensione, "pasticciere di fama, non esagero se dico mondiale", per farmi raccontare un po' come ha iniziato la sua attività. Mi ha spiegato che ha cominciato alla fine degli anni '50, apprendendo l'arte e soprattutto la passione da suo zio Vittorio Aronne il quale preparava i dolci in casa. Durante il servizio militare prestato in provincia di Salerno, si è specializzato pasticciere e al termine del servizio di leva si è messo a fare i dolci solo su ordinazione, per matrimoni e battesimi, prima a Orsomarso in un magazzino attrezzato di forno a legna, situato sotto la sua abitazione in Via Santa Sofia e poi, per avere maggior sbocco commerciale, nel 1961 si è trasferito a Marcellina mettendo su un vero laboratorio artigianale a conduzione familiare. I dolci "rurci", sono pasticcini di forma rotonda a base di pan di Spagna, farciti con crema pasticcera e ricoperti di glassa di zucchero fondente (una vera delizia per il palato). La sua fama si è diffusa velocemente in tutto il circondario della provincia di Cosenza e man mano in tutta l'Italia e anche all'estero.
A richiesta i suoi dolci possono essere spediti in qualsiasi momento e in ogni luogo, mi ha detto infatti, a questo proposito, che un nostro compaesano emigrato da molti anni in America desiderava festeggiare una cerimonia importante con i dolci di Orsomarso. Il signor Renato non ha esitato e ha cercato di accontentarlo inviando via aereo l'ordinazione ricevuta (ovviamente la farcitura dei dolci in questo caso era di marmellata e non di crema pasticcera, facilmente deperibile).
Il mese di novembre la pasticceria chiude per ferie poiché è il mese dedicato ai morti. Mia figlia Barbara che avrebbe desiderato festeggiare il suo matrimonio con un tocco di tradizione orsomarsese ha dovuto rinunciare a questi fantastici dolci proprio perché ha scelto di sposarsi a novembre (dissacrando la tradizione ....).
Oggi la pasticceria Aronne è molto famosa e conosciuta anche per le torte e pasticcini a base di cedro. Per promuovere e valorizzare al massimo il prodotto che la Riviera dei Cedri gli offre è stato invitato tante volte in varie trasmissioni televisive. Ha ricevuto molti riconoscimenti con targhe e attestati di benemerenza.
Noi Calabresi siamo molto legati alla tradizione ed ogni occasione è buona per riagganciarla, per rivivere e ritrovare antichi sapori, lasciati ma non dimenticati. Sempre per questo motivo, noi nostalgici e golosi, ogni volta che torniamo al nostro paese abbiamo un chiodo fisso e fino a che non mangiamo questo delizioso dolce, "u rurciu ri ziti ri Renatu" non siamo contenti.
A nome di tutti gli orsomarsesi lo ringrazio per aver innalzato il nome del paese, per la sua laboriosità e magnanimità. Personalmente ringrazio molto il signor Renato per la disponibilità e per le informazioni che mi ha dato. Ora l'attività del laboratorio è portata avanti dai figli del signor Renato, e a rotazione ci lavorano altre15 persone circa. Da oltre 50 anni, il signor Renato da "piccolo" artigiano è stato capace di creare posti di lavoro dando la possibilità a tante famiglie di non abbandonare, ma bensì di restare nel proprio territorio.
Ma torniamo al rinfresco, quanto mi piaceva sentire l'allegria e la bella atmosfera festosa che regnava! Auguri e congratulazioni urlati, brindisi, applausi, e bambini rumorosi davanti all'ingresso che aspettavano che qualcuno (dei camerieri) gli porgesse qualche pasticcino. Quando il rinfresco stava per volgere al termine, al posto della bomboniera, per congedare gli invitati, gli sposi offrivano cinque confetti: la sposa li pescava con un cucchiaio dalla ciotola di cristallo che lo sposo reggeva. Da una mia ricerca personale, ho appreso che intanto il confetto "mennula" ricoperta di zucchero rigorosamente bianco, simboleggia la purezza e la preziosità e il numero cinque rappresenta la salute, la ricchezza, la felicità, lunga vita e la fertilità; numero dispari in quanto indivisibile, come dovrebbe essere un matrimonio.
Sempre la persona indicata dai familiari degli sposi era incaricata di dire - man mano che gli invitati uscivano di casa - chi, tra loro, doveva ritornare per il pranzo.
Per il banchetto dei matrimoni non si badava a spese, il pasto era ricco e abbondante e il menù prevedeva i famosi "maccaruni ri ziti" con sugo di carne di capra, salumi e formaggi nostrani, olive, insalata verde, frutta fresca e frutta secca, pane fatto in casa e vino della migliore annata versato in modo copioso per tutti, a volte veniva sacrificata anche una vitella intera da arrostire. Al suono dell'organetto prima, e del giradischi dopo, si ballava la tarantella, la quadriglia, per finire con il valzer fino a notte inoltrata.
Per andare a casa la sposa cambiava abbigliamento: indossava il secondo abito confezionato apposta per questa occasione. Dopo aver salutato parenti e amici e al termine di una lunga giornata, gli sposi venivano accompagnati alla loro casa dai rispettivi padri e da qualche intimo amico.
La mattina successiva alle nozze la mamma della sposa si premurava per portare il caffè e la colazione agli sposi. Che gesto delicato !!
Se gli sposi non partivano per il viaggio di nozze, iniziava la settimana della sposa - la luna di miele - "a simmàna ra zìta". Altrimenti veniva rinviata al ritorno. Chissà come mai si parlava della settimana della sposa e non dello sposo o degli sposi. Posso ipotizzare che il più grande cambiamento di status, nel nostro paese, fosse più per la donna, chiamata a occuparsi del "nido". Infatti in questa settimana mentre il marito andava a lavorare, la sposa rimaneva in casa per ricevere parenti e amici che andavano a farle visita e per portarle il regalo di nozze che poteva essere qualsiasi oggetto o utensile per la casa. Non si usava fare la lista nozze. Era usanza, non so se esiste ancora, che dei regali ricevuti la suocera della sposa ne scegliesse uno per sé. Sempre in questa settimana la sposa inviava alle persone che non avevano potuto partecipare al matrimonio un vassoio, "na guandiredda", con i sospiri e i confetti. Ho letto recentemente che in alcuni luoghi del meridione d'Italia inviare i dolci a chi non aveva partecipato alle nozze, voleva dire mettersi al sicuro e al riparo da eventuale influenze malefiche. Anche questo incarico veniva affidato alle ragazzine che si prestavano con grande gioia a questo compito poiché era l'occasione per mangiare qualche dolce in più. Era d'uso, e forse lo è ancora, che per tutta la settimana gli sposini venissero invitati a cena a turno dai parenti più stretti. Che bella abitudine! Era un modo di continuare a festeggiare gli sposi e far sì che prendessero lentamente consapevolezza del cambiamento alla nuova vita di coppia. Anche se erano giovani sposi, venivano trattati ormai come adulti e persone mature.
Nel mio immaginario di ragazza di allora paragonavo questa settimana a qualcosa di molto bello, spensierato, dolce, carico di aspettative e di sogni. Mi piaceva osservare questo momento perché la sposa prendeva lentamente coscienza del mutamento alla nuova vita. Noi sognavamo ad occhi aperti e segretamente con loro, sperando di poterci fare, un domani, a nostra volta, una bella famiglia felice. Man mano che passavano i giorni la sposa diventava una vera padrona di casa, occupandosi delle faccende domestiche e della gestione della casa. Tutte le persone e soprattutto le vicine di casa la trattavano con affetto e rispetto.
I matrimoni venivano celebrati solitamente in primavera e non nel mese di maggio perché in questo mese (c'era il detto) si sposano gli asini "si nzuranu i ciucci" e mai in novembre, mese dei morti, il giorno più appropriato era sempre il sabato o la domenica, mai di martedì e venerdì. Da qui il detto "ri vennìri e di marti né si sposa e né si parti". Di venerdì e martedì non ci si sposa e non ci si mette in viaggio. Anche per questo detto ho trovato una spiegazione: Marte nella mitologia greca è il dio della guerra, e venerdì, secondo la cabala, è il giorno in cui furono creati gli spiriti maligni.
Al contrario in Norvegia, il giorno più propizio per celebrare i matrimoni è il venerdì, in quanto Venere è la dea dell'amore. Paese che vai, usanze che trovi ...
Non ricordo riti di matrimoni civili, mentre è impresso nella mia memoria il grande mistero che avvolgeva i matrimoni celebrati di sera e non sull'altare maggiore in quanto affrettati, a causa di molteplici fattori come ad esempio la sposa incinta o altro. Come non ricordo di "fujitine", perché probabilmente a Orsomarso questo fenomeno era a me sconosciuto, forse perché ero piccola e quindi tenuto segreto e discusso solo dagli adulti.
Nel mio vicinato mi è capitato di assistere anche ad un matrimonio celebrato in casa per motivi di salute del padre della sposa. Quanto fascino mi ha lasciato questo ricordo, la casa tutta addobbata a festa e ricoperta di arredi di un bianco candido con l'altare al centro della stanza. Solo i famigliari e gli amici più cari avevano partecipato e quella volta avevo partecipato al pranzo di nozze anche io.
Ultimamente ho partecipato a qualche matrimonio a Orsomarso e ho notato che certi gesti sono ormai desueti e un po' mi dispiace. Anche in paese ormai si adotta l'usanza di città.
Certo per fortuna adesso c'è più disponibilità economica e nessuno più fa il ricevimento in casa (a me piaceva anche in casa) ma nei migliori ristoranti. Il bouquet è di fiori freschi e anche la chiesa viene addobbata in modo molto raffinato. Gli invitati non fanno più il corteo ma in ordine sparso, ognuno per conto suo, e la sposa è accompagnata in chiesa dal padre mentre lo sposo dalla madre. La cerimonia religiosa è personalizzata dagli sposi che scelgono insieme al celebrante sia le letture, che il vangelo, la preghiera dei fedeli e i canti perché, nel frattempo, il rito è cambiato. Anche i compari d'anello non esistono più ma ci sono solo i testimoni scelti dagli sposi. I regali che ricevono durante la "simmàna ra zita" non sono più oggetti per la casa ma la busta con denaro.
Un'altra cosa molto dolce e delicata che ricordo è quando la mia indimenticabile nonna Teresina (Trisina ri fina) oltre a confezionare corredi, scriveva le lettere per conto delle mogli che non sapevano leggere e scrivere, ai loro mariti emigrati al nord dell'Italia o all'estero. Quanta intimità, quanta complicità si creava fra le due donne! La donna analfabeta che si affidava totalmente all'altra nell'interpretazione del racconto per decidere cosa far sapere allo sposo. Mia nonna Teresina (aveva frequentato fino alla terza elementare) con parole sue, trascriveva la storia a volte omettendo o aggiungendo a secondo dei casi ..... Oggi sarebbe impensabile una cosa del genere, ma allora era comune affidarsi a chi ne sapeva di più.
Sarà perché sono molto legata alle tradizioni, o forse perché sono semplicemente una romantica, ma il matrimonio celebrato ad Orsomarso mi piaceva più di ogni altro rito e cerimonia. Anche se non capivo molto l'importanza di certi gesti sono rimasti ugualmente impressi tanto da raccontarli e trasmetterli oralmente ad altri. La curiosità di fare questa ricerca, mi ha anche divertita e arricchita, mi ha spinto ad andare alla scoperta dei significati di certi gesti in altre culture, ha risvegliato in me la voglia di continuare ad andare sempre più avanti, mi ha fatto anche riflettere di quanto importante siano le tradizioni e di come è necessario dare voce per ricordarle.
Ancora adesso a distanza di molto tempo, se penso a quell'atmosfera briosa, allegra e spensierata, un brivido di felicità mi pervade e riaccende in me i ricordi che sembravano sopiti.
Prima di terminare, mi piace segnalare alcune curiosità: il famoso detto orsomarsese "matrimonio e r'accattu poji rici certu quannu jè fattu", che significa: matrimoni e acquisti sono certi quando sono conclusi. E anche "maritu e figghi comi diju ti manna ti pigghisi," che significa: marito e figli come Dio te li manda, te li tieni.
Le fedi nuziali in dialetto orsomarsese si chiamano "niddi " e il bouquet "u mazzettu", "sckitta" significa nubile, "nzuràtu", sposato, e (riferito al fidanzamento) "a mbalisa" palese, "a mmucciona" di nascosto, "zitijènnu", amoreggiare, e il vedovo si chiama "cattivu".
A Milano ho scoperto che il giorno del matrimonio la sposa deve indossare tre indumenti: uno usato, - che simboleggia la vita che lascia e l'importanza del passato che non deve mai essere dimenticato nel passaggio verso la nuova vita; uno regalato, - che simboleggia il bene di una persona molto cara; e un nastrino blu, - il blu nell'antichità simboleggiava la purezza, e per questo era anche il colore del vestito da sposa. Ho inoltre scoperto che non è consigliabile regalare le perle perché la tradizione vuole che portino lacrime (ma non sono riuscita a scoprirne il perché). Inoltre non so se tutti sanno che suonare il clacson non è solo per attrarre le persone al passaggio degli sposi, ma anche e soprattutto per generare rumore capace di mettere in fuga gli spiriti cattivi. E le damigelle servivano per proteggere la sposa da eventuali malefici. Anche se non ci si crede, ho visto nella mia vita diverse coppie prendere le precauzioni necessarie sia in fatto di perle che di clacson.
Un'altra curiosità interessante è il velo; anticamente serviva per nascondere il viso della ragazza soprattutto per i matrimoni combinati (nelle culture orientali esiste ancora) e simboleggia la sottomissione a Dio e, nel caso del matrimonio, al marito. Ecco perché mia nonna non entrava mai in chiesa "scapìdda", a capo scoperto, questo gesto lo vedeva come un sacrilegio, e anche io quando vivevo a Orsomarso dovevo indossare la veletta, e ricordo che nessuna ragazza si sia mai sposata con il cappello ma rigorosamente sempre e solo con il velo.
In ultimo, vorrei segnalarvi un film vicino alle nostre tradizioni meridionali, Il mio grosso grasso matrimonio greco, film del 2002 diretto da Joel Zwick. Forse è un po' esagerato per certi aspetti, eppure guardandolo è possibile riconoscere tanti tratti comuni anche agli orsomarsesi di un tempo!
Mi piace concludere con una poesia che piace molto a mia figlia Barbara, che ringrazio per il sostegno e la disponibilità che sempre mi offre nella stesura di questi approfondimenti, ponendomi domande e dandomi la possibilità di precisare ulteriormente il mio pensiero. Questi approfondimenti sono prima di tutto un'occasione di conversazione tra noi per tenere traccia e tramandare le tradizioni paesane.
A lei e a suo marito Francesco, giovani sposi (per me son sempre giovani!), auguro con tutto il cuore di amarsi e rispettarsi e di essere da esempio di lealtà e di onestà.

Matrimonio, di Adèlia Prado
Ci sono mogli che dicono:
Mio marito, se vuole pescare, che peschi
ma i pesci poi se li pulisca.
Io no. A qualsiasi ora della notte mi alzo,
lo aiuto a squamare, aprire, tagliare e salare.
E' così bello, noi due da soli in cucina,
ogni tanto i gomiti si toccano;
lui dice cose come: "Quanto è stato difficile"
"Brillava nell'aria con colpi di coda"
e fa il gesto con la mano.
Il silenzio della prima volta che ci siamo visti
attraversa la cucina come un fiume profondo.
Alla fine, i pesci nella teglia,
andiamo a dormire.
Cose argentee guizzano:
siamo sposo e sposa.

Lucia Santelli
29/07/2011
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