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I padroni della vita

L'ULTIMO NO a Eluana Englaro dalla Regione Lombardia contraddice la sentenza della magistratura, e l'editoriale dell'Osservatore Romano che avanza dubbi sulla morte cerebrale, riaprono il drammatico confronto su chi decide del nostro ultimo respiro.

La gente ha paura della propria morte, ma allo stesso tempo la vuole, o meglio vuole sapere che quando il momento verrà, se ne andrà in pace. Io sono d'accordo con il filosofo Hans Jonas, che, riflettendo sul problema della morte cerebrale, scrive: "Non è necessaria una ridefinizione della morte, ma forse soltanto una revisione del presunto dovere del medico di prolungare la vita ad ogni costo". Di fronte a un paziente che ha lesioni così gravi da non avere alcuna prospettiva di recupero, la domanda non è "il paziente è morto?" ma: "Che fare di lui?".

A questa domanda non si può certo rispondere con una definizione di morte ma con una definizione dell'uomo e di cos'è una vita "umana". In altre parole, il problema della nostra morte si è spostato dalla scienza (che ha il ruolo di definire i criteri per determinare la morte in base alle sue conoscenze) alla bioetica (che ha il compito di stabilire un equilibrio fra applicazione delle conoscenze della scienza e vita dell'uomo). La scienza continua a spostare i limiti della morte, ma al di là di questi confini non c'è la nostra esistenza naturale, in cui noi amiamo, ci emozioniamo, pensiamo, soffriamo; quella che noi medici difendiamo con tutte le nostre energie, la nostra intelligenza e il nostro amore.

C'è un limbo opaco e inquietante a metà fra la non-morte e la non-vita. Va ricordato che la bioetica è nata nel 1970 con Von Potter che, nel suo "Bioethics: a bridge to the future", sostiene che l'etica deve ispirarsi alla biologia dell'uomo e si dichiara preoccupato dello sviluppo di tecnologie che alterano gli equilibri dell'esistenza umana. Una tempesta si è abbattuta su questi equilibri con l'introduzione della vita artificiale, cioè quando a metà del secolo scorso sono state introdotte nei reparti di rianimazione delle macchine in grado di mantenere l'ossigenazione del sangue e il battito del cuore, anche se le funzioni cerebrali sono cessate.

Nasce così l'incubo della vita artificiale, come esito non voluto dei progressi della tecnologia. Per millenni l'uomo ha avuto paura di morire per le guerre, le malattie, le carestie, invece negli ultimi decenni ha iniziato a sviluppare una nuova paura che è ancora agli esordi del suo manifestarsi: la paura di vivere oltre il limite naturale della biologia. Molti si stanno rendendo conto della progressiva invasione della tecnologia nella vita umana fino a spostarne i confini all'infinito. Ha ragione l'Osservatore Romano: i principi del rapporto di Harvard che ha introdotto i criteri neurologici nella definizione di morte (da allora basata non solo sull'arresto cardiocircolatorio, ma anche sull'encefalogramma piatto), se non superati, sono in evoluzione. Troveremo altri criteri più sofisticati forse, e tecnologie ancora più potenti, ma dovremo allora rinunciare alla morte? È una prospettiva agghiacciante, che si associa all'immagine di un esercito crescente di corpi vegetanti chiusi nelle loro prigioni.

Come fare allora a ritrovare la nostra morte? Ritorniamo a Hans Jonas e riflettiamo sul concetto di vita. La svolta alla definizione di vita è venuta a fine '900, quando è stata identificata la vita biologica con il pensiero: se l'elettroencefalogramma è piatto, non c'è attività cerebrale e dunque non c'è vita. In Italia l'introduzione dei criteri neurologici per accertare la morte (sulla base dei parametri di Harvard) avvenne nel 1969 e nel 1970, con due decreti che poi vennero incorporati in una legge relativa al prelievo e al trapianto d'organo nel 1975.

Se i parametri di Harvard fossero superati e se effettivamente, dal punto di vista fisiopatologico, la morte cerebrale non provocasse la disintegrazione del corpo, ciò che non viene né superato né messo in discussione è l'irreversibilità dello stato che la morte cerebrale provoca. Per fare un esempio concreto pensiamo a Terry Schiavo, il caso americano che ha infiammato le cronache internazionali perché, dopo grandi polemiche, la sua vita artificiale fu interrotta. Ebbene, all'autopsia il cervello di Terry è risultato completamente devastato per cui è dimostrato che la ragazza non vedeva, non sentiva, non provava né fame né sete, né null'altro. La ricerca scientifica ci offre dei parametri certi, come appunto la morte cerebrale, oltre i quali la vita irreversibilmente non sarà mai più quella che noi conosciamo e chiamiamo vita. Dovrebbe spettare ad ognuno di noi decidere che fare.

Umberto Veronesi per "la Repubblica"
04/09/2008
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