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Il monaco Nilo sul monte Gelbison (*)

ITINERARI - Il santuario mariano del monte Gelbison di Novi Velia, o Sacro Monte, è meta di pellegrini provenienti non solo dal Cilento, come sarebbe naturale attendersi, ma anche dai territori limitrofi e, in particolare, dalla Calabria settentrionale.
Si ignora quando, temporalmente, abbia avuto origine un così forte legame tra la "Madonna del Monte" e gli abitanti di un comprensorio tanto vasto, anche se esistono alcuni indizi che sembrano porlo in relazione con la vicenda umana e spirituale del santo calabrese Nilo di Rossano.
La biografia di questo monaco italo-greco, il più famoso vissuto nell'Italia meridionale, viene attribuita al suo concittadino e discepolo San Bartolomeo ed è considerata uno dei capolavori della letteratura, non solo religiosa, del X-XI secolo. Vi si narra la storia del giovane e colto Nicola, nato verso il 910 da una delle più facoltose famiglie della Rossano bizantina, forse i Malena, il quale ricopriva un ruolo di prestigio nell'ambito della cattedrale ed era destinato a un futuro di sicuro successo, quando, intorno al 940, lasciò improvvisamente la moglie e una figlia e si ritirò nell'eparchìa di Mercurio, lungo la valle del Mercure-Lao, per farsi monaco.
La sua scelta non piacque al governatore di Rossano, il quale minacciò di tagliare la mano e confiscare il monastero a quegli egumeni che avessero osato tonsurarlo. Il biografo non spiega le ragioni, forse imbarazzanti, di tanta ostilità, che, comunque, sembrano non avere alcuna attinenza con l'abbandono del tetto coniugale, in quanto le norme canoniche della Chiesa greco-ortodossa ammettevano lo scioglimento del vincolo matrimoniale nel caso in cui uno degli sposi avesse deciso di abbracciare la vita monastica.
I religiosi mercuriensi, tuttavia, non si fecero intimidire e, giudicando sincera la vocazione dell'aspirante monaco, lo mandarono a farsi tonsurare in "terra straniera", nel non lontano cenobio di San Nazario, località che è oggi una frazione del comune di San Mauro la Bruca e che, all'epoca, ricadeva nel Principato longobardo di Salerno, quindi, fuori dalla giurisdizione bizantina.
Nel corso del viaggio verso il centro cilentano, il giovane fece tre incontri indesiderati, che il suo biografo interpretò come altrettanti tentativi del demonio di distoglierlo dal suo intendimento: fu, prima, trascinato per un tratto di via da un uomo uscito improvvisamente dalla boscaglia; si imbatté, poi, in un gruppo di Saraceni che bivaccavano sulla spiaggia, e, infine, incontrò un cavaliere che lanciò accuse infamanti contro i monaci e la vita religiosa.
Passato indenne da questi pericoli, Nicola giunse finalmente a San Nazario e, assunto il nuovo nome di Nilo, prese i voti e fece alcune scelte di vita alle quali, poi, si mantenne sempre fedele.
Dismessi i lussuosi abiti civili e fatto dono del suo mantello a un aspirante monaco, rimase scalzo e a capo scoperto, vestito con la sola tunica e una sorta di "cappa di pelle di capra", trapunta di croci, che egli stesso si era cucito. Si nutriva solo di pane, acqua, erbe e frutta di stagione, sottoponendosi a frequenti digiuni e dedicando gran parte del tempo, anche notturno, alla preghiera e allo studio delle Sacre Scritture e delle vite dei Padri del deserto, mentre riservava alcune ore della mattinata a vergare codici e a comporre inni, attività nelle quali eccelleva.
Dopo aver rifiutato l'offerta di dirigere un vicino cenobio, rimproverò, senza alcun timore, un potente "conte" del luogo che vessava la popolazione, predicendogli la morte entro dieci giorni, come effettivamente avvenne.
Nilo rimase a San Nazario per quaranta giorni, ovvero il tempo strettamente necessario per far "calmare le acque" e rientrare nell'eparchìa di Mercurio. Qui si fermò per circa un quindicennio, inizialmente sotto la guida del grande Giovanni, dell'angelico Zaccaria e del celebre Fantino, con il quale ultimo intrattenne una fraterna amicizia. Si spostò, poi, nella vicina grotta di San Michele, dove condusse vita semieremitica e incominciò a raccogliere attorno a sé i primi seguaci, Stefano e Giorgio, attratti dalla sua fama di santità.
A seguito delle continue incursioni saracene, anche Nilo, con i suoi monaci al seguito, fu costretto a lasciare l'eparchìa mercuriense, per dirigersi prima a San Demetrio Corone, presso Rossano, e, nel 978, a Capua, da dove, venuto a conoscenza dell'intenzione delle autorità locali di nominarlo vescovo, si trasferì quasi subito a Valleluce. Nel 994 si spostò a Serperi, raggiungendo infine i colli Tuscolani, nelle vicinanze di Roma, dove morì ultranovantenne nel 1004, lo stesso anno in cui, su sua indicazione, i discepoli iniziarono a trasformare in monastero un vecchio oratorio cristiano, già villa romana, denominato "Crypta ferrata" per la presenza di alcune finestre con doppia grata di ferro.
Ebbe così origine il Monastero Esarchico di Santa Maria di Grottaferrata, tuttora esistente, che custodisce e perpetua la tradizione del monachesimo italo-greco ed è sempre stato in comunione con la Chiesa di Roma, svolgendo un'importante funzione di cerniera con il mondo greco-ortodosso, di cui conserva il rito.
Per alcuni secoli, gli abati di Grottaferrata ebbero il titolo di Baroni di Rofrano, forse a partire dagli anni immediatamente successivi alla morte di San Nilo, quando San Bartolomeo di Rossano si recò in visita ufficiale nel Principato di Salerno.
È comunque certo che la signoria degli abati criptoferrati sulla località cilentana esisteva già al tempo del re normanno Ruggero II, che, con un crisobollo del 1131, confermò loro i diritti concessi dal duca Ruggero Borsa e dal figlio di questi, Guglielmo, sulla chiesa rofranese di Santa Maria, con tutte le sue pertinenze e le nove grange da essa dipendenti, tra le quali vi era quella di San Nicola di Siracusa, in territorio di Scalea.
Rofrano e Scalea, ovvero due località poste rispettivamente nel Cilento, a circa venti chilometri da San Nazario, e nell'eparchìa di Mercurio, furono dunque, per lungo tempo, sotto il diretto controllo dei monaci di Grottaferrata, che, in questo modo, mantennero il legame con i luoghi dove il loro santo fondatore era stato tonsurato e aveva ricevuto la formazione monastica.
I due centri si trovano nel cuore di territori in cui, oggi, è assai diffuso il culto della Madonna del Monte, che perciò potrebbe esservi stato introdotto proprio dai monaci italo-greci, come peraltro sembra confermare il già citato crisobollo del 1131, nel quale, tra le località confinanti con i territori della chiesa di Rofrano, è menzionata la "rupe di Santa Maria", identificata da alcuni studiosi proprio con il celebre santuario di Novi Velia.

(*) Pubblicato in L'Editoriale del Cilento - Anno II - numero 12 - dicembre 2013, pp. 18-19.

Biagio Moliterni
18/01/2014
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