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Prodi, un anno dopo la vittoria. Ma c'è delusione

POLITICA - Un anno fa l'Italia andava al voto. Non tutti lo ricordano. Alcuni l'hanno rimosso. Perché non c'è molto da celebrare. I vincitori frustrati da un risultato deludente. Gli sconfitti che hanno perso talmente di poco da non riuscire a farsene una ragione. Inoltre, gran parte delle questioni politiche aperte, prima delle elezioni, tali sono rimaste anche dopo. Nonostante tutti - gli attori e gli osservatori politici ed economici, ma, in primo luogo, i cittadini - si attendessero una svolta. Con speranza o paura, non importa. Tuttavia, per questo rammentare è utile. Per riflettere, una volta di più, sulle difficoltà della nostra democrazia.

Un anno fa, alle elezioni del 9-10 aprile 2006, tutti si aspettavano una "svolta". La sconfitta del centrodestra e il successo del centrosinistra, secondo le indicazioni fornite, fino a poche settimane prima del voto, da tutti i sondaggi. Un esito dettato non tanto dai meriti dell'Unione, ma dalle responsabilità della CdL e soprattutto di Berlusconi.

Reo di aver prima "illuso" e poi "deluso" gli elettori. Di aver annunciato miracoli senza poi riuscire a farli. Le previsioni, per quanto in modo avventuroso, si sono effettivamente realizzate. La maggioranza che governa: non più di centrodestra, ma di centrosinistra. Il premier: non più Berlusconi, ma Prodi. Tutto è, dunque, cambiato. Eppure tutto sembra uguale a prima. Molti segni ci riportano al clima politico di un anno fa. Alle questioni politiche irrisolte della nostra democrazia.

La delusione dei cittadini. Al di là degli eventi, al di là delle oscillazioni congiunturali, resta elevata. Come un anno fa. Come negli ultimi mesi prima delle elezioni. Molto più alta rispetto al 2002, quando Berlusconi governava da un anno; come oggi Prodi. Con l'aggravante che allora l'economia mondiale era depressa, dopo lo shock dell'attentato alle Torri; mentre oggi è in crescita. La stessa retorica del declino è declinata. Contraddetta dall'andamento dell'economia. Oggi, semmai, la polemica si è concentrata sul significato da attribuire all'attuale ripresa. Per il centrodestra si tratta del ritorno alla "normalità", dopo un ciclo globale sfavorevole. Ma anche dell'eredità lasciata dall'azione virtuosa del governo Berlusconi. Il centrosinistra, invece, spiega la ripresa economica come la conseguenza, quasi immediata, dell'azione del nuovo governo italiano.

Non ci interessa, qui, intervenire in una disputa, a questo punto, sterile. Che, peraltro, non pare emozionare né coinvolgere troppo i cittadini. La cui fiducia, effettivamente, è cresciuta negli ultimi mesi, nei confronti dell'economia. Mentre, nei confronti della politica e del governo (ma non solo), il disincanto resta elevato. Quanto e più di prima. Quando governava Berlusconi. Non credono troppo, gli elettori, alle capacità taumaturgiche del governo Prodi. Anzi, come emerge dall'indagine di Demos-Eurisko, condotta circa un mese fa, solo una quota limitata di cittadini pensa che l'Unione abbia mantenuto le promesse. Meno del 20%. Una misura inferiore a quella rilevata agli inizi di ottobre 2006, mentre cominciavano a montare le polemiche contro la legge finanziaria. Ma anche rispetto all'ultimo periodo di governo del centrodestra.

Soprattutto, non è cambiato il senso di precarietà che inquina il sistema politico e la democrazia italiana ormai da molti anni. Si respira la stessa sensazione di incertezza. Sollevata dal sospetto - diffuso - che le cose non possano continuare a lungo, in questo modo. Lo stesso sentimento di "transizione", che fa percepire la maggioranza, il governo, lo stesso premier come entità disancorate. Di passaggio.

Anche perché i passi necessari a consolidare il presente e, ancor più, a costruire un futuro "lungo" procedono incerti. Uno avanti, due di lato. Un altro indietro. Senza una direzione precisa.

Gli attori politici marciano con difficoltà sulla strada dell'aggregazione e dell'unificazione. Nel centrosinistra ma anche nel centrodestra. Basta osservare le polemiche e le divisioni che accompagnano i congressi dei Ds e della Margherita, che, fra poco, dovrebbero dare avvio al Partito democratico. Nonostante le attese di tanti elettori. Nonostante la buona volontà - e l'impegno - di alcuni leader politici (come Piero Fassino, che ha somatizzato la "fatica" di questa impresa). Ma le resistenze all'integrazione frenano e dividono anche il centrodestra. Si veda la rinnovata tensione alla concorrenza che scuote i partiti della Cdl (o ciò che ne resta). Determinati a correre da soli, in molte importanti realtà locali dove si voterà il prossimo mese.

Anche la strada delle riforme istituzionali e soprattutto della legge elettorale sembra priva di destinazioni chiare e definite. Malgrado le due coalizioni abbiano delineato bozze di riforma, per molti versi, simili. O, forse, proprio per questo. Perché entrambi i progetti sembrano soffrire dello stesso vizio. Delineano, cioè, una sorta di "nanarellum". Una legge che non ridimensiona il peso dei partiti più piccoli (i "nanetti", come li ha definiti Giovanni Sartori). Ma, se possibile, lo ripropone, non meno rilevante di ora.

Peraltro, nonostante l'attivismo di Prodi, delle coalizioni e i continui ammonimenti del presidente della Repubblica, nonostante l'assonanza fra le bozze di riforma elettorale, sembra difficile che si giunga a un'intesa. Troppe e troppo profonde le differenze fra i venti partiti coinvolti nel negoziato. Per cui, un giorno dopo l'altro, il referendum, più che una pistola alla tempia, appare un fucile. Un cannone puntato contro il sistema dei partiti. Destinato a esplodere i suoi colpi. Con effetti imprevedibili.

Un anno dopo le elezioni del 2006 è come se tutto fosse cambiato, per lasciare le cose come prima. Si continua a navigare a vista. Senza intravedere l'orizzonte. Senza una mappa, una rotta. Ogni voto al Senato è un corpo a corpo. E continua ad aleggiare, nell'aria, l'idea che da un momento all'altro qualcosa possa accadere. Che questa legislatura possa subire uno strappo, una battuta d'arresto, una svolta. Solo il 20% degli italiani pensa che il governo durerà per tutta la legislatura. Era il 33% solo sei mesi fa. Ma fra gli elettori di centrosinistra l'ottimismo non è molto più esteso (scommette sulla "durata naturale" del governo il 35% di essi).

Un anno dopo le elezioni del 10 aprile, dunque, si continua a parlare di elezioni. Leggi elettorali, voto anticipato, referendum sulle leggi elettorali. E si continua a discutere dei futuri partiti unitari. Sempre più vicini e sempre più contestati. Come i leader delle coalizioni. A loro volta divise. Così, alita la sgradevole sensazione che noi non si riesca a scrivere il futuro. Insieme. A correggere la nostra rotta, se non a prevederla e a calcolarla. Perché non siamo un Paese "diviso a metà", come alcuni hanno stigmatizzato, all'indomani del voto: ma "a frammenti". Procediamo in ordine sparso. Noi italiani. Capaci di adattarci e di reagire, ciascuno nel proprio "piccolo" (a livello individuale, familiare, locale, di gruppo, di lobby...).

Ma per cambiare rotta, per reagire "insieme": abbiamo sempre bisogno di emergenze; di sfide impossibili. Noi italiani. Quelli che affondano nel fango di "calciopoli" e poi vincono i mondiali. Siamo il "paese dei miracoli". Che, però, non sempre si ripetono. Perché, talora, anche i nostri Santi protettori sono impegnati altrove.

(10 aprile 2007)

Fonte: Repubblica.it
12/04/2007
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